Tempo di Coronavirus. Tempo irreale. Reclusi in casa da oltre un mese oramai, le giornate hanno acquistato significati dimenticati. L’abitudine ha fatto il resto, proiettandoci in una realtà fuori dal tempo ed in un luogo mai così tanto simile a se stesso. Impossibile da immaginare o da prevedere. Una società fatta di uomini abituati al moto perpetuo, alla corsa ripida e faticosa, all’insensatezza di un traguardo invisibile, è stata arrestata ad uno stato di immobilità che, soprattutto nel suo incipit, ha palesato tutta l’innaturalità dello stesso. La paura ancestrale per antonomasia, estranea e rigettata dalla società che viviamo e subiamo, si è palesata per milioni di persone, per una generazione priva di qualsiasi certezza. Senza alcuna strada delineata. Nella società della vita eternamente presente, il pericolo della morte diffusa ed improvvisa diventa una certezza. Quantomeno una realtà possibile, che a livello potenziale potrebbe riguardare tutti. La società occidentale ha operato ormai da decenni una poderosa opera di rimozione pubblica e mass-mediatica della morte. Tutto è apparenza, eppure la morte non viene mostrata, se non in rari casi. In questa occasione se ne parla come deterrente, affinché le persone rimangano a casa. Ma la sua visione reale, il suo volto sicuro, è accuratamente rimosso. Si preferisce narrare l’eroismo dei medici in prima linea, le difficoltà di territori che si sono trasformati in luoghi dalle mura invisibili. Come se non fossimo più pronti ad affrontare la paura della morte, troppo distanziati da una considerazione naturale della vita. Tecnologicamente ascesi, umanamente vinti.
Una moltitudine di persone sta vivendo questo periodo di isolamento forzato con grande fatica. Separazione dai cari, paura di ciò che eravamo e che forse non saremo più, quantomeno per un periodo di tempo indefinito. In realtà, tale paura ha lo stesso volto di un’altra che l’uomo si sta trascinando da troppo tempo. La paura di una solitudine che dilaga, che ogni anno diventa sempre più regola sociale. Modalità esistenziale.
La pandemia isola ma questo è uno stile di vita già consolidato per un gran numero di esseri umani nel mondo. Sempre meno viviamo gli spazi comunitari di incontro e di condivisione, le piazze come luoghi aggregativi. I luoghi dell’incontro virtuale, in molti casi, hanno preso il posto della vicinanza dei corpi. Ciò che impaurisce, probabilmente, è la costrizione della solitudine. Come se un mutamento così radicale ed unidirezionale come quello della società attuale non fosse anch’esso una costrizione, imposta dall’esterno. Un distanziamento umano e sociale che è già scientificamente in atto per l’uomo, perfettamente a suo (dis)agio.
Si parla molto di smart-working, di telelavoro, dell’importanza dello stesso e di come questo debba essere il futuro migliore cui andremo incontro. La scuola a distanza, il giudizio a distanza, le riunioni a distanza, la produzione a distanza. Lo smart-working è definito dall’Osservatorio del Politecnico di Milano come “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione dalle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. Eppure non tutto potrebbe rivelarsi così perfetto. In primis, la tecnologia si pone come tramite fra gli individui in molti altri ambiti della vita sociale ed individuale. Con la conseguenza che la collaborazione, basata anche su una comprensione empatica, diventerà giocoforza più complessa. Gli orari di lavoro potrebbero acquisire flessibilità, nel senso di un maggior numero di ore lavorate. Molte persone, isolate dal virus e dalla peste della solitudine sociale, si prostreranno volontariamente agli straordinari non retribuiti. E si compierà la deresponsabilizzazione dei datori di lavoro e “superiori” cui conseguirà la totale identificazione tra l’uomo e la sua produzione. Ed ovviamente piena responsabilità individuale, senza possibilità alcuna di delega altra. Un processo partito da lontano, come illustra Zigmunt Bauman nel suo denso libro “Voglia di comunità”:
“Passati pochi decenni, vissuti nel segno della distruzione bellica e della ricostruzione postbellica, apparve chiaro che per i manager fosse scoccata l’ora di scrollarsi di dosso gli ingrati ed onerosi doveri dirigenziali che i proprietari del capitale avevano in passato accollato loro, ed essi procedettero con grande ardore a reiterare l’atto di sparizione dei proprietari del capitale. Dopo l’epoca del “grande coinvolgimento” è arrivata quella del “grande disimpegno”. L’epoca dell’alta velocità e dell’accelerazione costante, di un sempre minor coinvolgimento, della “flessibilità”, del “ridimensionamento”, dell'”outsourcing”. L’epoca dell’aggregazione a tempo, da perseguire solo fino a quando risulti conveniente e non un minuto di più”.
La paura del coronavirus, leggo da più parti, dovrebbe spingere le persone ad una riflessione profonda. Ad un ripensamento che sia individuale e sociale. La pandemia è combattuta in maniera solitaria così come, sempre più, si combatte in maniera solitaria la difficoltosa vita odierna. Non è possibile immaginare che una paura collettiva generi spontaneamente una nuova consapevolezza poiché essa esige un pensiero critico nei confronti di poteri invisibili, schemi sociali, atteggiamenti, regole e consuetudini che hanno lavorato continuamente sulle sinapsi e sulla genetica umana. Diventando abitudine e “normalità”.
E’ impossibile immaginare cosa potrà aspettarci nei prossimi mesi, quali cambiamenti tale periodo recherà nella vita di una larga fetta di mondo. Restano le paure veicolate dalla società della normalizzazione dell’inumano. La paura del fallimento continuo, della solitudine, del mancato riconoscimento dell’esistenza sociale ed individuale, l’eterno presente schiacciato su se stesso. La darwiniana legge del più forte. La separazione dei corpi e delle anime. Come queste anormali normalità andranno a reagire al contatto della realtà pandemica non ci è dato saperlo. Intanto, la peste è arrivata.
Dopo cena nella periferia di Orano. Silenzio nelle strade illuminate da una luna di una bellezza rara. Un bambino di 8 anni, incurante del virus che sconvolge il globo, siede sul bordo di una vecchia rugginosa fontana, sguardo rivolto al cielo e piedi nudi penzoloni. Una canzone araba risuona da una finestra semi-aperta, il vento tiepido spira dolce sul volto ingenuo e sereno. Notte fonda a Canary Wharf, Londra. La città spaventata, riflessi di luci ovunque. Al 23simo di un grattacielo come tanti un uomo gioca al virtuale, investe su titoli di altrettanto trascendenti aziende, viso teso e battito irregolare. Una puttana si riveste dopo aver incassato la ricompensa del suo dono tradito, il vento freddo sbatte sulle coscienze di migliaia di uomini dal sonno tormentato. Due bandiere differenti sventolano lontane. Una umile, l’altra da bruciare.